Françoise Ozon si conferma il regista transalpino più duttile della sua generazione. Dopo commedie ad impianto teatrale, fantasy, drammi crepuscolari, solo per citare alcuni generi che ha attraversato, arriva al melò storico e fa centro.

Ozon tesse un'opera pacifista di grande impatto, capace di catturare lo spettatore nonostante l'ostica scelta del bianco e nero e le due lingue parlate durante il film. Un mondo cupo appena uscito dalla Prima Guerra Mondiale fotografato in chiaroscuro in cui lampi di colore illuminano la tristezza del ritorno al quotidiano dopo l'atroce guerra. Un mondo in cui però la crudeltà cova sotto la cenere ed essere francese in terra tedesca, e viceversa, è molto pericoloso. Regia sicura con una costruzione delle scene eccellente (vedi il primo incontro tra Anna e Adrien divisi fisicamente da un albero oppure lastruggente scena dell'inno francese cantata a squarciagola in un bar di Parigi) sono solo uno dei numerosi pregi della pellicola.

La sceneggiatura gioca con il mistero, e Ozon si diverte a prendere in giro lo spettatore con un gioco metacinematografico legato alle sue precedenti pellicole (alzi la mano chi non ha pensato ad una laison tra i due). Al contempo sbatte in faccia al moderno pubblico europeo come potrebbe tornare ad essere il Vecchio Continente se dovesse continuare la deriva nazionalistica dell'ultimo periodo in cui vince chi urla più forte.

Eccellente la giovane protagonista tedesca, Paula Beer, giustamente premiata alla Mostra del cinema di Venezia come miglior attrice emergente della rassegna. Di certo non sfigura il protagonista maschile mentre le battute più importanti del film sono sulla bocca dell'uomo più anziano interpretato con decisa rassegnazione da Stotzner.

Un intrattenimento intelligente, capace di far riflettere sull'attualità attraverso gli occhi di personaggi di cento anni fa. Capace di insegnarci che nel cinema la forma è sostanza (il colore come lampi di felicità). Capace di far commuovere e sognare come solo il grande cinema sa fare.