Yasemin Şamdereli in collaborazione con Deka Mohamed Osman: Non dirmi che hai paura (Samia)

Visto ad Alice nella città. Concorso.


 

Olimpiadi di Pechino, 2008. Samia Yusuf Omar partecipa alla gara dei 200 metri arrivando ultima.

Ha solo 17 anni, viene dalla Somalia, un paese dilaniato dalla guerra civile ed in mano agli estremisti islamici, corre senza il velo e viene comunque incitata dal pubblico, diventando così un simbolo.

Tornata in patria ben presto capisce che la sua unica salvezza è scappare, affidandosi ai trafficanti di esseri umani.

Morirà nel mar Mediterraneo il 2 aprile 2012 mentre cerca di raggiungere le cime lanciate da una nave della Marina italiana.

Come diceva Vito, il protagonista del bellissimo L’ultima isola di Davide Lomma, a proposito di un altro naufragio; “È stato commesso un peccato mortale”.

Non dirmi che hai paura, tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Catozzella, irrompe ad Alice nella città proprio nel momento in cui la tragedia della deportazione degli emigranti dall’Italia verso l’Albania si trasforma in una tragica farsa.

Impossibile rimanere indifferenti dinnanzi alla trasposizione di questa storia vera, in quello che è sin troppo facile definire un film “necessario”.

Non dirmi che hai paura sembra concepito apposta per un pubblico giovane, in fondo è la storia di una ragazzina, che, nonostante tutto, riesce a coronare il suo sogno.

La più classica delle storie di riscatto attraverso lo sport.

Samia infatti proviene da una famiglia povera, funestata dalle disgrazie visto che il padre prima perde una gamba, vittima casuale di una sparatoria, per poi morire in un attentato.

Le immagini di repertorio ci riportano alla Somalia degli anni ‘90, funestata dalla guerra civile con i soliti fanatici religiosi islamici che prendono il potere e cominciano a vietare tutto.

Figuriamoci se in una situazione simile una ragazzina poteva correre.

Ma Samia dalla sua ha una fortissima determinazione ed una famiglia che, pur tra contraddizioni ed ovvi timori, si dimostra sempre pronta a sostenerla.

Sarebbe sin troppo facile accusare il film di lanciare sullo spettatore retorica a pacchi puntando sulla pancia e sulle emozioni; in fondo, una volta tanto va bene così.

Perché, come dicevamo, la storia di Samia è pensata per i ragazzi ma forse andrebbe fatto vedere a certi personaggi per sbattergli in faccia quelle terribili immagini delle carceri libiche, del camion con i corpi stipati come i treni merci verso i campi di concentramento e di quei morti in mare che hanno sulla coscienza.

EMILIANO BAGLIO