YVONNE SANSON, LA DIVA MELODRAMMATICA

La protagonista di cui vi parlo ha riscosso un grande successo nella propria epoca senza però mai riuscire a separarsi dallo stereotipo del genere cinematografico che le ha portato più fortuna: il mélo. Ed è difficile pensare al melodramma popolare italiano senza immaginare la sagoma sinuosa e gli occhi languidi di Yvonne Sanson.

Sebbene abbia interpretato molte pellicole di vari generi il suo nome rimane comunque inscindibilmente legato a quello del regista Raffaello Matarazzo e dell’interprete maschile con cui ha diviso più volte il set, Amedeo Nazzari. Non è certo né mio, né nostro compito quello di rivalutare la figura di Sanson agli occhi di un pubblico che non può che aver accantonato un filone cinematografico che già all’inizio degli anni ‘60 del secolo scorso appariva datato e stucchevole. Eppure è proprio anche attraverso Yvonne Sanson che possiamo forse cogliere la capacità del cinema, in particolare nelle sue figure femminili, di descrivere in modo sottile i grandi momenti di cambiamento sociale.

Matronale, formosa, opulenta (per utilizzare un termine enfatico come l’estetica che esprime nei suoi film), Yvonne Sanson potrebbe essere accostata alle cosiddette “maggiorate” per le forme procaci che porta in scena, ma da esse si differenzia nella sostanza. Se infatti personaggi come Silvana Mangano, Sophia Loren o Gina Lollobrigida esprimono, anche dal punto di vista corporeo, una sorta di spregiudicata modernità, di forza e di libertà nella raffigurazione estetica delle “donne del popolo” in contrapposizione all’antica vamp aristocratica o alla femme fatale, Sanson rimane bloccata nel limbo della propria epoca.

Materna eppure erotica, la donna raffigurata da Yvonne Sanson è quella prigioniera della propria condizione. Il suo corpo accogliente è benevolo in modo seducente, ingombra la scena, si offre all’occhio dello spettatore così come si offre in modo rassegnato all’ennesimo supplizio della trama, perenne vittima sacrificale in eterna espiazione. La stessa recitazione, forse anche complice l’aggiunta dell’audio in post produzione, è in bilico tra muto e sonoro. I primi piani che indugiano sul volto riempiono lo schermo delle espressioni calcate e veloci che Sanson regala al suo pubblico, commuovendolo nell’immedesimazione.

La Diva è finalmente a misura d’uomo. Le sue curve prorompenti acquistano la dolcezza rassicurante di una moglie, di una sorella, di una madre. La sua sensualità trova riscatto nella regolarità della coppia consolidata. E quando non lo fa ne paga le conseguenze ma lo fa nel nome di un bene superiore, quasi sempre un figlio. Per questo è sempre redenta. Espressione della visione profondamente patriarcale della sua epoca Sanson ha però il merito di aver unito in un unico personaggio i due estremi antitetici nei quali la visione femminile veniva restituita al grande pubblico di massa: l’angelo del focolare e la donna carnale.

Questa fusione in un unico corpo riesce ad essere così convincente da non destare scandalo. Certo la censura non vede di buon occhio racconti di adulterio o di gravidanze extraconiugali ma il pubblico invece comprende. La donna di Sanson è umana in senso pieno, vera, assimilabile a qualsiasi donna degli anni ‘50 che viva in modo conflittuale il proprio ruolo all’interno del modello familiare e per questo perdonabile anche in ciò che la morale dell’epoca ritiene imperdonabile.

Ma questo processo è troppo lento e troppo marginale per poter continuare a tracciare un percorso. Il tempo passa e il secondo dopoguerra lascia spazio ad altre istanze ad altre figure e messaggi. I corpi femminili disegnati dal cinema si fanno più esili. Le curve sono relegate al mero immaginario erotico e lo resteranno per molto tempo. Ma soprattutto la donna non si accontenta più del “perdono” e della “redenzione” e rivendica un posto differente per sé. I ruoli per Yvonne Sanson sono sempre meno frequenti fino al ritiro definitivo all’inizio degli anni ‘70. Morirà a 77 anni nel 2003.

di Francesca Arca