Siamo in Francia, le istituzioni sono quelle di una Repubblica che è per definizione bene organizzata. Ma anche una buona organizzazione burocratica può commette errori, se si appoggia a chi, dovendo agire, lo fa per dovere, magari adempiendo perfettamente al proprio ruolo, senza porsi domande e senza porgere affetto. Come i servizi sociali. La scuola? E’ quella che Malony non frequenta, è proprio questo il suo peccato originale.

Ciò che succede nei primi anni lascia una indelebile impronta alla nostra vita. E’ vero che poi la vita ci cambia, ma i primi ricordi, formati quando ancora non parlavamo, rimangono. Sfocati, probabilmente non così come sappiamo dirli oggi, ci restituiscono il primo contesto. Quello del piccolo Malony non è un ambiente di affetto; piuttosto è di una evidente brutalità, prendere o lasciare, affermarsi o perdere tutto. Chiudersi in sé e reagire, anche violentemente, piuttosto che subire.

Non sappiamo cosa è successo prima dei sei anni, quando incontriamo per la prima volta sullo schermo il nostro protagonista, durante una burrascosa seduta alla presenza del giudice dei minori, che cerca, invano, di far ragionare la madre, che tiene in braccio un più piccolo nato e cerca di spiegare le sue difficoltà anche con l’attuale partner. La madre se ne va, Malony inzia la sua storia fuori dalla famiglia.

Nei dieci anni e poco più che seguono vediamo il giovane (interpretato da un convincente Rod Paradot) dentro e fuori istituzioni rieducative, compresa una breve esperienza di carcere.

Non così il giudice, che non ha nome, se non quello dell’attrice, Catherine Deneuve, che è sempre in bilico, deve amministrare il diritto e gestire visibilmente carte e faldoni, ma deve anche “educare” cercando di volta in volta la scelta giusta, mai facile.

Il film si sofferma di più sul Malony ormai adolescente avviato alla maturità, tra i 15 e i 17 anni. Lo ritroviamo cresciuto, non sappiamo come, ma possiamo intuirlo (evidentemente nei vari istituti in cui è stato mandato ha trovato la giusta compagnia), capace di rubare automobili e guidare pericolosamente. Anzi, è quasi l’unica cosa che sa fare. Scrivere, è una pena, tanto quanto pensare. Meglio agire, meglio lasciarsi andare, inutile cercare di controllarsi, sarebbe una sconfitta con sé stesso. Dopo pochi momenti, ha sempre la meglio la violenza che ha imparato dalla vita e che sembra suggerigli che solo così può aver ragione, solo così può affermarsi.

Ci vorrà una ennesima casa di rieducazione, e un nuovo educatore scelto dalla giudice, anch’egli con un passato difficile, per riuscire ad addolcire il carattere. Compreso, come già accennato, un breve passaggio in prigione (non sappiamo se davvero quelle francesi sono tutte così efficienti), per avere un Malony già un po’ più capace di riflessione.

L’affetto lo trova inaspettatamente in una coetanea, figlia di una sua insegnante. In un primo momento, quando Malony intuisce di poter far qualcosa con lei, scatta la solita violenza, il principio del possesso: ma Tess riesce a riportare la calma. Non sappiamo cosa esattamente trovi in lui la ragazza, fino a giungere ad alimentare un amore, destinato anche a generare nuova vita, che il giovane padre inizialmente non è disposto a prendere in considerazione.

In questo periodo decisivo Malony ha trovato perfino un lavoro che gli piace: non certo quello inizialmente offertogli di cameriere, per definizione un subordinato non solo al padrone ma perfino anche ai clienti. Lo vediamo infine alle prese con un macchinario per sollevare e spostare tronchi e travi: immagine perfetta di un lavoro dove la realizzazione di sé avviene alle prese con qualcosa di grande e impegnativo.

A quel punto si potrebbe dire che il film va forse anche troppo velocemente verso il finale. In certo senso è proprio così, d’altra parte la regista, Emanelle Bercot, a questo punto aveva già chiarito il senso di ciò che voleva dire. Il ragazzo sta per diventare maggiorenne, orgogliosamente non è un vinto, sta per uscire a testa alta verso la vita adulta, consapevole finalmente che solo sapendo gestire i propri sentimenti e la propria volontà può essere protagonista della sua vita e non vittima delle circostanze. In questo, consapevole anche dei suoi debiti nei confronti della giudice, che conosce ormai da così tanto tempo e sta per andare in pensione, così come dei propri doveri, in quanto padre e amante.

Tante storie di ragazzi difficili non si concludono bene, anche questa poteva andare peggio. E, d’altra parte, cosa può garantire che dopo un’infanzia e una gioventù difficili, la vita sia una passeggiata?

Quando il film fu presentato al festival di Cannes (2015) non ottenne grandi considerazioni. Troppo facile considerare questi film secondo una prospettiva di rigore (troppo buonismo!) o secondo la prospettiva opposta (la rieducazione non si ottiene con le leggi). Difficile è per l’appunto il lavoro educativo, che richiede un impegno speciale, il compromesso totale e assoluto tra l’istituzione (per definizione anonima e imparziale) e il singolo caso (che richiede invece il riconoscimento della parzialità, della simpatia verso il singolo della sua irriducibilità agli altri).

Il messaggio del film si ricava da spettatori, ognuno ne può trarre, se vuole, una morale. La responsabilità di chi è chiamato a gestire casi difficili è certamente delicata, il meglio di questa storia è proprio il mettere in evidenza quanto il successo o l’insuccesso possono dipendere da tanti ingredienti che si sommano momento per momento. E non puoi (quasi) mai scommettere sul successo, che pure è il tuo scopo.