THE SON

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Suonano alla porta. 

Peter (Hugh Jackman) apre e si ritrova sulla soglia: dietro di lui la nuova compagna (Vanessa Kirby) con in braccio il loro bambino, davanti a lui l’ex moglie che chiede aiuto per il figlio adolescente. Perché il passato ritorna sempre, si sa. 
 

(Ho apprezzato molto questa scena, in cui l’uomo tentenna tra il passato e il presente, è diviso a metà). 
 

I primi piani che il regista, Florian Zoller, riserva all’uomo rivelano sin da subito due occhi determinati, capaci di guardare al futuro. Peter, difatti, è un uomo maturo, brillante sul lavoro, capace di autocontrollo. Vorrebbe essere un punto di riferimento tranquillizzante per suo figlio, che sembra vivere una normalissima crisi adolescenziale. Pensa sinceramente di farcela, ma dovrà fare i conti con una tristezza che appare giorno dopo giorno sempre più esagerata. Disarmante per la madre, per la compagna di Peter e (forse) anche per lui. Qualcosa dentro Nicholas (Zen Mc Grath), con la separazione dei genitori, deve essersi evidentemente rotto irrimediabilmente. Anche lui è diviso a metà.  Rifugge la compagnia dei suoi coetanei, non frequenta la scuola e si isola in un parco. Vive terribilmente l’inquietudine di chi non riesce a rispondere con grinta alla complessità della realtà che lo circonda.
 

(Ogni identità evolve in modo unico e un fattore negativo può perturbarla al punto tale da impedirne una maturazione serena e completa. Può accadere, ma non è detto che sia sempre così. Ognuno di noi è, appunto, unico e irripetibile).
 

Credo che non sia sempre facile mettere in scena le emozioni, soprattutto quando sono collegate a condizioni mentali complesse quali, per esempio, la depressione. Il regista, a parer mio, ci è riuscito brillantemente, anche attraverso la prevalenza di colori freddi nelle scene. Di forte impatto il colloquio tra Peter e suo padre (Anthony Hopkins), che mostra quanto uno squilibrio psicologico familiare, generato dall’assenza genitoriale nelle situazioni di difficoltà emotiva di un figlio, possa avere ripercussioni gravissime. Anche a distanza di anni. 
 

Nicholas si sforza di ridere ma ne percepiamo la sofferenza, il fatto che non senta di avere prospettive attorno a sé, ma solo quell’infinito senso di solitudine che lo assale. I suoi occhi sono smarriti. È alienato dalla realtà. Ho apprezzato molto la canzone ”Wolf” di Awir Leon abbinata ad una scena che guida gradualmente nell’abisso interiore, nel suo vuoto esistenziale. È a questo punto che, a parer mio, anche lo spettatore si interroga per la prima volta sulla strada che prenderà la depressione del ragazzo. Comincia, cioè, ad averne paura. E inizia a fare caso a ogni dettaglio, che seppur piccolo possa rappresentare un presagio triste: la farfalla blu e la foglia morta appese al muro, quel quadro raffigurante la luna su uno sfondo nero. Belli e delicati, ma nel complesso tristi perfino loro. 


La presenza di Kate e del bambino riportano continuamente al tempo presente. Come a voler urlare che non c’è tempo per voltarsi indietro. Ma il regista ci obbliga continuamente a farlo con dei flashback: Peter che insegna a nuotare a Nicholas, per esempio. Rievoca la potenza di un legame fortissimo, richiamando continuamente la bellezza infinita dell’amore. Che è il motivo per cui la vita vale la pena di essere vissuta. 
 

Il finale, non scontato ed insolito, potrebbe spiazzare lo spettatore (un pò meno chi, come me, lavora nel settore della salute mentale).