Crisalide

 

Vi sono fiori 
non generati dalla terra
scaturiti da un suolo rarefatto
raggi riflessi del giorno
e non sono da cogliere
sono d’oro
impreparati
così senza foglie
come pensieri.
(F. Holderlin)

 

 



In un mondo in cui convivono umani, cloni e androidi (chiamati tecnosapiens – come se esistesse un’umanità senza tecnologia, cosa che non è così: sapiens è tecnologia, la natura stessa lo è, ma magari ne parliamo un’altra volta), dunque in un mondo così articolato, si delinea la storia di una perdita, perché Yang muore. O meglio: si rompe, si guasta. Perché lui non è un umano. È un androide, che la famiglia ha preso con sé per insegnare alla piccola figlia adottiva di origine cinese qualcosa sulla sua cultura di origine.
Yang si spezza, e qualcosa si incrina anche in Jake e la sua famiglia. Perché bisogna fare i conti con l’elaborazione di quello che è un vero e proprio lutto. L’angoscia della perdita pervade tutti. Il dolore del distacco è fortissimo. Le urla dei ricordi si fanno sempre più forti.
Chi era davvero Yang? Che cosa nascondeva il suo cuore di bit e circuiti? Sono davvero emozioni, sentimenti, ricordi, desideri, aspirazioni, sogni, quelli contenuti nel suo nucleo centrale?
Il film è estremamente dolce, delicato, si muove in punta di piedi, perché cammina su un campo minato: quello dell’identità, del senso dell’io. A Jake non resta che scavare, anche letteralmente, nella memoria di Yang. E viene travolto da una galassia – è proprio così che viene rappresentata la memoria dell’androide. Una galassia che restituisce mondi gravidi di esistenza, istanti fugaci di un passato che continua a nascere, momenti di assillante vitalità, piccoli attimi di vita che pulsa. Il sorriso di una ragazza, per esempio.
Yang era innamorato? E com’è possibile? Forse questo lo rende meno androide, più umano? Era sicuramente diverso, unico. Ma lo siamo tutti, in qualche modo. Lo sa anche Jake. E ora guarda Yang che si guarda allo specchio. Un gioco di riflessi che finisce sempre nella collisione interstellare tra universi cannibali e densi di poesia.
Quella ragazza è un clone. Yang forse ne era innamorato. Ma ora non importa più. O meglio: è l’unica cosa che importa. Perché “dopo Yang” ci sono solo domande. Come in ogni storia d’amore. Come in ogni storia d’orrore. Come in ogni addio, in ogni bacio, in ogni idea di futuro.
Ma forse il protagonista vero del film è un altro. Non è Yang, non è Jake, ma sua figlia. Lei è il vero motore dell’azione. Lei è il centro della galassia, è la galassia stessa. L’amore deflagrante.
Jake si immerge nei ricordi di Yang, lo farà anche sua moglie, e in qualche modo, lui e lei, si ritrovano. E potranno danzare ancora, come nei meravigliosi titoli di testa. Perché la vita è un insieme di passi di danza, resi preziosi dalla possibilità della fine. Qualcosa che dà senso al tutto e al nulla, colmando di significato gli interstizi cosmici tra i bit e gli atomi, tra i circuiti e il sangue, tra galassie assassine che si baciano.
Ci sono dentro tanti temi: la memoria, l’identità, l’inclusione, la famiglia, il lutto, la riscoperta di sé. After Yang, in realtà, non dice niente di nuovo, ma lo fa con un garbo e una delicatezza di rara potenza. Ma in realtà qualcosa di intrigante lo dice: quello che il bruco chiama fine, il resto del mondo lo chiama farfalla.

Alzare gli occhi al cielo, ammirare le stelle, stordirsi di galassie, perdersi nell'infinito: vuol dire specchiarsi.
Per questo abbiamo paura. Per questo ci innamoriamo.

La vita, amore mio, è la crisalide.
Per questo è così fragile. Per questo è meravigliosa.