Il valore dunque e la qualità dell'amore vengono determinati unicamente da colui che ama.
Per questo motivo si preferisce, nella maggioranza, amare più che essere amati. Quasi tutti vogliono amare.
E la cruda verità è che per molti la condizione dell'essere amati riesce intollerabile.
L'amato teme e odia colui che lo ama, e a ragione.
Perché l'amante cerca sempre di mettere a nudo l'oggetto del proprio amore;
e richiede ogni possibile genere di rapporto con l'amato, anche se l'esperienza gli porterà solo dolore.
(Carson McCullers, La ballata del caffè triste)
Liza è morta. Mia moglie. Si è suicidata. Mi ha lasciato una lettera. L’ho trovata per caso. Era sotto il cuscino. Non ho il coraggio di aprirla. Non ho la forza di leggere. Non ho più niente. Non ho più niente.
Wilson torna a casa. Varca la soglia del vuoto. L’apertura alare del silenzio cancella l’orizzonte. Il pavimento diventa letto, l’aria è immobile, è plastica, e la notte si popola di demoni affamati che hanno forma di domanda. I fantasmi abitano castelli gotici e racconti dell’orrore, ma quelli che fanno più paura sono nel cuore dell’uomo. Wilson stringe la lettera tra le mani. La porta sempre con sé, ma non la apre. Trova l’elastico dei capelli di sua moglie, in auto, sul cruscotto. I suoi capelli, capite? Quelli che ha accarezzato un miliardo di volte, avevano il profumo del sole che accarezza la schiena di un cervo, durante un pomeriggio di inoltrato autunno. Ora non ha più niente. Tutto fa male, tutto fa paura. Vorrebbe essere come la libellula o il calicanto: senza alcuna identità.
Liza. Vorrei capire, vorrei capirti. Ma mi deprimo a immaginare cose senza fine. Oceani in rivolta e tenebre sono i miei pensieri. Indosso sorrisi che non so gestire, costruisco frasi che mi franano addosso. Ti odio di un amore sconfinato.
Wilson è solo nello spazio interstellare. Un asteroide immenso, un granello di blu disperato. L’eco caratteristica da casa abbandonata ha preso il controllo del suo cuore. Ha gli occhi gonfi, la bocca piena di parole in frantumi. Avrebbe voluto. Avrebbe dovuto. Le domande, i tormenti, i fantasmi, la rabbia, il dolore, la dipendenza. Non sa dove andare, che cosa fare. La suocera è tutta la famiglia che ha, ma lui non ha più niente. La donna vorrebbe che leggesse la lettera di sua figlia. Ma lui non ne ha il coraggio. Ogni volta che si sveglia è sempre più lontano dalla realtà, qualunque cosa essa sia. È solo e perduto nel cosmo infinito.
Il cuore che piange mentre dico
Io per dimenticarti ho un nemico
Ed è lì, riflesso nello specchio, hai miei stessi occhi vuoti pieni di mondi in decomposizione, di galassie alla deriva, di niente di niente di niente di niente di guerra di pomeriggi insanguinati sotto un mandorlo in fiore. Wilson vede sé stesso, un mostro avido di ricordi, entusiasmi, possibilità. Tutto è lei, lei è tutto. L’amore è morto, e il futuro e l’universo e tutti gli insetti. Wilson è il suo nemico, il suo doppio, opposto e assassino, come in un racconto di Borges, come in incubo di Lynch, come in una passeggiata nella neve insieme a Robert Walser, come incontrare un nuovo amico che ama giocare con i modellini di aeroplani, come andare allo zoo con una donna che tra la puzza degli animali dice che crede di essersi innamorata di te.
La voce che trema mentre dici
Io per dimenticarti ho cicatrici
Wilson entra in un vortice senza fine, senza inizio, senza tempo, senza alcun significato, perché non comprende l’insistenza dei giorni. Perché il sole? Perché quella camicia? Quale carburante necessitano gli aerei telecomandati? Quanto cazzo dura la notte? Wilson non torna a casa, non ci tornerà più, perché casa è dove sto con lei. Wilson, artista del rimpianto, esteta dell’attesa, procede indomito nella sua personalissima discesa libera all’inferno, quel luogo affollato di solitudine che è il suo cuore senza di lei. Perché, forse, la vera domanda non è perché si è uccisa, ma perché l’ha sposato.
Liza, ho mal di mare, male di galassia.
Vorrei domare il mondo,
proteggerti in questi sentieri,
resistere per un secondo,
non perdermi in certi pensieri.
La vita è crudele: ti ha portato via da me.
Wilson è alla deriva dentro di sé. Non si può fare pace con certi fantasmi. Non esiste via d’uscita da certi labirinti. La vita è un male incurabile. Sì, dev’essere così. Oppure. Eppure. Non lo so, nemmeno lui lo sa: Wilson sa soltanto di aver trovato un unico sollievo, una dipendenza, un surrogato di serenità, una pace tossica, un’isola in cui ripararsi dalla guerra dei giorni, delle ore, dei minuti, di tutti i secondi che hanno il suo viso.
Il sole che ormai tramonta ogni mattina
Per dimenticarti mi stordisco di benzina
Wilson viaggia con il suo nuovo amico, insieme vanno a un raduno di appassionati di modellismo, lui si tuffa nel fiume e interrompe la gara, il mondo lo sommerge, il dolore non sparisce, la sofferenza non si placa, la disperazione è cornice di tutto e ancora non ha letto quella lettera. La suocera ha il suo stesso dolore, per questo lui la respinge, non accetta, non capisce, non ha più niente. L’elaborazione del lutto è una cosa strettamente personale, credo. Come innamorarsi, come credere che quel bacio sia davvero un nuovo big bang e che l’universo è nato in questo preciso momento, nell’istante in cui le tue labbra hanno toccato le mie sono nate tutte le cose, il tempo, i pianeti, i dinosauri, dio, i computer, le astronavi, le domeniche fatte di neve e malinconia. Cosa ci sarà in quelle righe? Spiegazioni, deliri, desideri, scuse, preghiere, ipotesi, speranze, ringraziamenti, dolore, violenza, amore, dolcezza, mari ghiacciati? Farà comunque male. Fa già malissimo. Wilson affonda il viso in un asciugamano impregnato di benzina.
Il buio che mangia ogni domani
Per volarti via invento aeroplani
Wilson, ancora, sempre, soltanto per un attimo. Aerei, carburante, inferno, polvere, ricordi. L’assordante silenzio della sua casa vuota eclissa ogni sospiro, ogni battito, ogni respiro. Il cielo è un puntino piccolissimo, irraggiungibile, masticato e sputato via. A che serve se non ci sei tu a disegnare le nuvole? Che cosa me ne faccio della pioggia se non ci sei tu a danzare con me nelle pozzanghere? E questo letto, questi colori, questo cibo, questo giardino, questo caos informe chiamato vita, a che cosa servono? Wilson perde il lavoro. Un giorno torna a casa e non trova più nulla, è sparita ogni cosa. I vestiti, le posate, le sedie. E le fotografie, i ricordi, la lettera. E ancora più vero, adesso: non ho più niente.
Liza. Potrai mai perdonarmi? Potrò mai perdonarmi? Potrò mai perdonarti? Da quanto tempo ci pensavi? Aiutami, ti prego, resta qui con me, lasciami per sempre. Perché l’hai fatto?
Wilson corre a casa di sua suocera, insieme al suo amico. È stata lei che ha preso tutto. Lui è disperato, non ha più niente. La donna gli urla “tu hai tutto di lei”. Il dolore, come l’amore, ci rende ciechi. Wilson entra in casa, si muove tra pile di abiti, tra scatoloni pieni di fotografie, ricordi di una vita, anzi tutte. Si siede. Il sole entra dalla finestra e illumina la stanza. Apre la lettera. Inizia a leggere.