Una stanza d’albergo, una donna (Margaret Qualley) ed un uomo (Christopher Abbott).

Lui è l’erede di un impero alberghiero, lei un avvocato.

Almeno così sembra.

Sanctuary è un thriller che gioca continuamente sul filo sottile che separa la messa in scena dalla verità.

Lo spettatore, una volta scoperto il vero mestiere della donna che non sveleremo per non rovinare la sorpresa, continua a domandarsi durante tutta la visione sino a che punto quest’ultima stia interpretando una parte, quanto ci sia di gioco e menzogna e quanto di reale nelle sue minacce e negli stessi dialoghi tra i due.

Un gioco che prevede un continuo rovesciamento delle parti e soprattutto dei rapporti di potere perché, sin troppo facile intuirlo, Zachary Wigon, in regista del film, è evidente che vorrebbe parlare d’altro.

Il suo film vorrebbe essere una gigantesca metafora dei rapporti tra i sessi con gli ovvi riferimenti al movimento Me too e più in generale al ruolo della donna nella società contemporanea.

Il tutto rovesciando le parti poiché stavolta è la donna ad avere il coltello dalla parte del manico a condurre avanti il gioco e ad avere il potere.

La struttura e la sovrastruttura reggono soprattutto grazie ai due attori ed in particolar modo ad una Margaret Qualley strepitosa.

Però, diciamolo altrettanto francamente, all’ennesimo rovesciamento dei ruoli con conseguente presunto colpo di scena, Sanctuary comincia a mostrare la corda.

Insomma nonostante i suoi 96 minuti di durata il film di Wigon alla fine comincia girare a vuoto su sé stesso avendo esaurito l’unica idea di fondo che continua a ripetere con piccole varianti finendo con l’annoiare.

Per fortuna che c’è un colpo di coda finale quello sì inaspettato.

Forse alla fine abbiamo assistito ad una romantica storia d’amore. Il che renderebbe tutto molto più interessante.

EMILIANO BAGLIO