Pur mantendoli come sola cornice e non come fulcro della vicenda, Aronofsky torna a riflettere sui limiti fisici di corpi portati all'estremo e allo stremo. Scafandri mortali per anime immortali. Con cui affondare senza più riemergere. Dove non conta solo qual è la massima tollerabilità carnale (o anzi, in questo caso, non conta quasi per niente), ma anche e soprattutto come rimanere umani in quelle condizioni, come apparire vivi più che viventi agli occhi esterni. Corpi da indossare, se non addirittura da consumare. Soprattutto in una situazione come quella di Charlie in cui si è soli persino di fronte a se stessi (e in cui tutti, invece che soli, vogliono essere unici - esemplificativo in questo senso il personaggio di Liz, che si occupa di Charlie ma ne vuole avere “l’esclusiva”).
In quell'oceano rinchiuso in una stanza, popolato da mostri marini terrificanti, il corpo di Charlie si annulla del tutto nel piccolo riquadro nero di una videochiamata con la fotocamera spenta.
Ma anche dietro quell'abisso di pixel rimane qualcosa, un primo indizio di ciò che poi dopo nel film toccheremo più da vicino, nel dolore e nella speranza: l'umanità, che in quella voce graffiata dà autentici consigli di scrittura a giovani online. Perché anche senza volto non si è anonimi, finché l’anima appare (sincera) anche senza essere guardata.
Per Charlie ogni movimento però è un macigno, un sibilo stridente di un corpo che ogni ora si avvicina per scelta alla sua fine, all’aumentare della pressione sanguigna, al lento appesantirsi di un respiro che via via si spegne. Charlie sente una colpa gigantesca e così per espiarla sceglie di diventare colpevole della sua stessa vita, artefice della sua lenta morte. In quell'oscuro mare di solitudine dalle tapparelle sempre abbassate, Charlie affoga infatti nel cibo, sempre più verso l'abisso: patatine, snack, bibite. A porzioni triplicate. Accumula volontariamente peso per una persona amata che quel peso l'ha perso invece non mangiando fino a morire.
Ma in quell’ingordigia (che non è avidità di cibo, ma di colpa) Charlie, come le cose più preziose e speciali, trasforma il basso in alto, il cibo spazzatura in amore, abbandonandosi ad un cuore metaforico che si sprigiona in ogni dove, mentre il suo cuore organico è invece difficile da raggiungere per l’adipe di mezzo, come scherza lui stesso in una battuta. Charlie vede infatti il buono in tutto, anche dove sembra non esserci, anche dove nessuno l'ha mai trovato. Perché "le persone sono incapaci di non amare".
Così anche nel profondo dell'abisso più buio, lì dove nessuno lo può vedere e dove chi incontra inaspettato il suo sguardo come un fanale nella notte (per caso o per errore - vedi il fattorino) ne rimane impaurito o imbarazzato, lì giù talmente in basso che le onde neanche esistono per dare ritmo all'esistenza, si può però ancora sentire il verso della balena, un richiamo, un lamento o forse appunto un canto, dolcissimo e pieno di speranza. Perché anche la parola più crudele, urente e fatale, se sincera, può salvare la vita, una vita. Come quella tesina su Moby Dick scritta da Ellie molti anni prima, tremendamente critica, ma così vera, sentita, umana che ancora adesso basta ascoltarla per tornare a far battere un cuore in arresto e affanno.
Un verso, un richiamo, una balena può risalire in superficie dall'abisso più oscuro, ritornare alla luce accecante, alle onde ora finalmente ritmiche che vanno avanti e indietro, con una carezza delicata che non fa mai male.
E diventare come in Sepúlveda quella gabbianella e quel gatto che le insegnò a volare, non importa se contro natura, non importa se considerato impossibile. Qui a differenza di Kengah, il gabbiano Charlie ha scelto volontariamente di buttarsi nel petrolio per non volare più. Ma ha scelto anche di dare comunque un futuro alla sua gabbianella, cresciuta incattivita, ostile e rabbiosa, farla ancora volare attraverso l’amore di un gatto (che è comunque sempre Charlie, in una sua forma alterata, eccessiva, apparentemente incompatibile e irriconoscibile).
Ellie, la gabbianella, come nel capolavoro di Sepúlveda, "Fortunata", perché, nonostante tutto, speciale, meravigliosa.
Salvata dall'amore, per l'amore, con la morte.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.